L’Abruzzo è l’antologia del paesaggio Mediterraneo, ponte tra il nord ed il sud, tra i Balcani e Roma, consente agli eterogenei profili dei suoi monti di dialogare continuamente con il mare. E questi contraccambia, restituendo, in inverno, le umide e fredde correnti dell’est che sui pendii del Gran Sasso, della Maiella, del Sirente-Velino si trasformano in pesanti e durature nevi. E’ stupefacente, d’inverno, poter sciare e godere del mutevole sviluppo costiero; al pari di quanto possa essere refrigerante, d’estate, voltarsi verso occidente, abbandonando anche solo con lo sguardo, il chiassoso arenile o le meravigliose calette di ciottoli da Ortona a Vasto nella parte sud della costa che si sviluppa per circa 130Km. tra armonia e unicità!
Strette in questo abbraccio, dimorano le fertili colline impreziosite da vitigni e dagli uliveti, gli altopiani, i borghi medievali, i laghi, ma soprattutto l’uomo con le sue storie, il suo adattarsi alla natura, assoggettarla ed infine preservarla.
L’Abruzzo è orgoglioso dei suoi parchi, della flora, della fauna e delle aree protette che coprono un terzo del suo territorio regionale. La regione più verde d’Europa individua, in questo corretto rapporto con la natura una fondamentale opportunità di sviluppo.
La gastronomia rappresenta il dividendo di questo sano approccio con l’ambiente. Con la riscoperta della dieta Mediterranea, la cucina abruzzese è balzata prepotentemente alla ribalta, forte del gusto e dei sapori sprigionati dai frutti della terra e del mare.
L’Abruzzo è una regione in cui tutte le stagioni sono adattate all’incontro con l’avventura.
Una delle sue perle rare è Ortona già “…a Mare”
Su di un promontorio che domina il mare, al centro della costa adriatica abruzzese, ad un’altitudine di 78 metri, sorge Ortona, centro marinaro di antichissima origine, abitato dai Frentani già nel X sec. a.C. Ortona appartiene alla provincia di Chieti, ma è geograficamente più vicina a Pescara, distante solo 22 Km. E’ il terzo comune della Provincia per estensione mentre si colloca al quarto posto per popolazione con i suoi 23.500 abitanti, distribuiti, storicamente, per il 55 % circa nel centro urbano e per il restante 45 % nelle numerose e popolate frazioni che costellano l’intero territorio comunale.
La città è servita da un ottimo sistema di collegamenti: Strada Statale n.16 Adriatica e autostrada A14 Bologna-Bari, sulla quale s’innesta, a soli 20 Km; dal casello di Ortona, la A24/A25 Pescara-L’Aquila-Roma; linea ferroviaria Milano-Lecce con le stazioni di Ortona, adiacente l’area portuale, e Tollo-Canosa, nella zona nord, a metà strada tra Ortona e Francavilla; aeroporto d’Abruzzo P. Liberi, di Pescara, a soli 25 Km.
Nel periodo estivo un veloce e moderno aliscafo collega quotidianamente il porto di Ortona, proprio sotto la città, ai piedi del promontorio, con l’arcipelago delle Isole Tremiti, e con motonavi veloci con la Croazia.
Il clima è gradevolmente temperato: freddo e asciutto, ma non particolarmente rigido, d’inverno con, a volte, qualche nevicata anche intensa; caldo, ventilato e poco umido d’estate.
La particolare conformazione orografica della costa, estesa circa 20 Km, è costituita, dopo un primo tratto a nord (Foro e lido Riccio) di spiaggia ampia e sabbiosa, da un susseguirsi ininterrotto di golfi, insenature, promontori, spiaggette, scogliere, miracolosamente preservate, che, con una interessante e cospicua presenza di tipica flora mediterranea, caratterizzano l’offerta turistica.
L’economia si è sviluppata prevalentemente attorno alle attività marinare, favorite dalla presenza, da sempre, di un porto, ed all’agricoltura con un’alta specializzazione nella produzione intensiva della prelibata uva da tavola Pergolone e delle ottime uve da vino Trebbiano, Chardonnay, Cerasuolo ed il rinomato Montepulciano D’Abruzzo.
Diverse cantine private e due grandi cantine sociali producono e commercializzano ottimi vini Doc: inoltre grazie ad un’iniziativa congiunta di Regione e Comune, nelle sale di Palazzo Corvo, nel cuore del quartiere medioevale, opera l’Enoteca Regionale.
Per la qualità e quantità dell’offerta, Ortona a ragione può essere definita definita la capitale vitivinicola abruzzese.
Altro volano economico è il porto, il cui bacino misura circa un milione di mq., sede di alcuni cantieri navali e basi logistiche di grandi società operanti nel settore offshore.
La tradizionale attività della pesca è praticata da una flottiglia di una quarantina di pescherecci di medie dimensioni, operanti esclusivamente nel medio Adriatico, e da diverse decine di piccole imbarcazioni che, abilitate alla pesca sotto costa, raccolgono dai bassifondi scogliosi un pescato particolarmente ricercato dai buongustai.
La storia di Ortona è legata fortemente al1258, anno in cui vennero portate ad Ortona le ossa dell’Apostolo Tommaso, provenienti dall’isola greca di Chio, nell’Egeo, dal navigante ortonese Leone Acciaiuoli, di ritorno da una spedizione navale in appoggio ai Veneziani in lotta contro i Genovesi. Custodire le reliquie di uno dei dodici apostoli di Cristo è un privilegio tanto raro quanto esaltante e non solo per ovvie motivazioni di natura religiosa ma anche per le evidenti connessioni storiche e culturali. Ortona, da oltre sette secoli, è gelosa custode dei resti terreni dell’Apostolo simbolo dell’incredulità e della vera fede conseguente. Le reliquie si trovano all’interno della Cattedrale omonima in pieno centro storico, nel cuore della città!
La cucina ortonese si ispira ai due elementi che hanno caratterizzato la vita sociale ed economica della comunità: mare (piatti a base di pesce) e terra (cucina tipica contadina).
Il piatto sicuramente più apprezzato della cucina marinara è il brodetto, una zuppa di pesce cucinata, rigorosamente con olio extravergine di oliva, nei caratteristici tegami di terracotta, comprendente molteplici varietà ittiche, da quelle dell’alto mare a quelle pescate nei bassifondi scogliosi della costa.
Da scoprire sono “i polpi in purgatorio”. Tra i primi, oltre a spaghetti ai frutti di mare e linguine al sugo di pesce, vanno ricercati i capellini trinciati in brodo di pannocchie e, con una certa dose di pazienza la pasta al sugo dei pelosi, ma attenzione perché la “caccia” a questo prelibato granchio è resa particolarmente difficile da norme molto restrittive.
Della cucina contadina, molto ampia, rinomata è la pasta alla chitarra; ottimo il brodo con cardone classico piatto della festa importante; caratteristiche le “pallotte casce e ove” (polpette a base di formaggio, uova e pangrattato); singolare la “pizze ‘e fuoije strascinate”, verdure ripassate in padella accompagnate con focaccia di granturco cotta “sotto il coppo”; forte la grigliata caratterizzata da fegatazzi (salsicce di fegato); gustosi i fagioli con le cotiche; prelibato il coniglio sotto il coppo; insolito lo spezzatino cif e ciaf.
Uno sfizioso connubio mare-terra si realizza con seppie e piselli, baccalà e peperoni arrosto, broccoli e stoccafisso, Baccalà (o stocco) e patate in umido.
I rinomati vini, pezzo forte della cucina locale, sono: il “Trebbiano d’Abruzzo” dal colore giallo paglierino; gradevolmente profumato, dal sapore asciutto, vellutato e armonico, ottimo coi piatti a base di pesce, esprime le sue migliori qualità se bevuto freddo; il “Montepulciano d’Abruzzo” che ha colore rosso rubino intenso lievi sfumature violacee, particolarmente indicato per accompagnare arrosti e cacciagione e il “Cerasuolo d’Abruzzo”, prodotto mediante un particolare processo di vinificazione delle uve Montepulciano, ha colore rosso ciliegia, un odore fruttato ed intenso, un sapore morbido con retrogusto garbatamente mandorlato, particolarmente gradito anche dai palati più esigenti.. Va bevuto fresco ed è indicato per gli arrosti ma ben si associa anche alla cucina di mare.
Per assortire più adeguatamente l’offerta e meglio soddisfare i nuovi gusti dei consumatori, in particolare dei giovani, sono stati introdotti sul mercato, più recentemente e con ottimi riscontri, altri vini: Chardonnay, frizzantini, novelli, spumanti, etc.
Il dolce tipico è la nèvola. Quasi venerata dagli ortonesi e praticamente introvabile in altre località. Si tratta di una cialda dal sapore delicato, arrotolata a forma di cono, costituito da un impasto di farina, mostocotto ed olio, aromatizzato con semi di anice, cotto tra due apposite piastre di ferro arroventate. La sua esistenza è documentata sin dal primo secolo d.c.. Accomunate alle nevole, per il procedimento di cottura, sono le più comuni pizzélle, altrove chiamate ferratelle. Altri dolci caratteristici sono legati a particolari festività: la cicerchiata al Carnevale; le zéppole fritte e spolverizzate con zucchero a velo, oppure al forno, con la crema, alla festività di San Giuseppe; il fiadone, una specie di torta a base di formaggio e uova, cotta in caratteristici tegami di rame alla Pasqua; crispélle (semplici frittelle fusiformi) e caviciòne, dei fagottini a forma di grossi ravioliu, ripieni di un misto fornato da marmellata di uva e mandorle (o noci) abbrustolite e tritate al Natale. Nel passato questi dolci venivano spesso accompagnati da un buon bicchiere di vino cotto.
Ortona è anche la patria di Francesco Paolo Tosti. Dal 1983 presso Palazzo Corvo, opera l’ Istituto Nazionale Tostiano. L’Istituzione di impegno musicologico si occupa statutariamente della vita e delle opere del compositore Francesco Paolo Tosti, degli altri musicisti abruzzesi e più in generale L’Istituzione di impegno musicologico si occupa statutariamente della vita e delle opere del compositore Francesco Paolo Tosti, degli altri musicisti abruzzesi e più in generale della musica vocale da camera e di altri settori della cultura musicale. Tale lavoro viene svolto attraverso il collegamento con istituzioni di cultura, editoria ed organizzazione musicale di rilevanza internazionale e con un’intensa attività musicale editoriale e discografica, l’attivazione di corsi di perfezionamento internazionali e l’organizzazione di mostre, seminari e convegni e di concorsi in Italia e all’estero.
L’Istituto possiede un ricco patrimonio di oggetti e documenti di notevole interesse storico ed artistico legato, oltre che alla figura di Tosti, al musicista Guido Albanese, al baritono Giuseppe De Luca, e ad altre personalità della vita musicale italiana. Da visitare.
Ortona è la porta di fatto del costituendo “Parco della Costa dei Trabocchi” che va da Francavilla al Mare fino a Vasto. Questo tratto di costa sud dell’Abruzzo prende nome dai “TRABOCCHI”, strane e complesse macchine da pesca, issate su palafitte e sorrette quasi miracolosamente da una ragnatela di cavi e assi. Non hanno una forma stabile, ma, nelle loro parti essenziali, consistono in piattaforme, composte da tavole e travi non completamente connesse, elevate su primitivi pilastri conficcati sul fondo del mare o su scogli, e congiunte alla vicina riva da esili passerelle. Dalle piattaforme si staccano le antenne, che sostengono le reti per mezzo di un complicato sistema di carrucole e funi.
I trabocchi hanno un’architettura leggera, verrebbe voglia di dire aerea, ma solida, in grado di sopportare il peso della robusta rete da pesca e le sollecitazioni delle tempeste marine.
Non sono un elemento architettonico stabile, ma dinamico, in rapporto costante con le forze della natura, con cui le loro eteree strutture interagiscono continuamente, in quanto ad ogni mareggiata perdono pezzi più o meno importanti, e, dopo ogni tempesta, hanno bisogno di aggiustamenti e riparazioni.
A ripararli pensano “i traboccanti”, depositari e custodi di un’antica e affascinante arte, apparentemente primitiva e improvvisata, ma in realtà evoluta quanto le più complesse tecniche ingegneristiche. I materiali adoperati sono i più vari e inizialmente erano legati alle disponibilità locali: l’olmo, l’abete e l’acacia erano i legni più usati, insieme alle corde di canapa. Oggi si adoperano molto anche i fili di ferro e le traversine delle ferrovia: l’importante è che tutti i materiali usati siano rigorosamente di riciclo. Nonostante la varietà dei legnami e dei materiali, comunque, i trabocchi risultano molto armonici ed eleganti nel complesso gioco di fili, corde e pali che si intrecciano tra loro, rendendoli simili a “ragni colossali”, come dice il celebre poeta abruzzese Gabriele D’Annunzio.
Molto del fascino che i trabocchi emanano, e che sta conquistando i turisti e i visitatori provenienti anche dall’estero, deriva soprattutto dai luoghi in cui sono posizionati.
Nella maggior parte dei casi, infatti, i trabocchi sorgono lungo le sporgenze della costa, dove questa forma una punta sul mare, e dove dalla riva si diparte una fila di scogli che permette di raggiungere un punto avanzato sull’acqua, in modo da poter permettere la pesca su uno specchio profondo, dove possono essere sfruttate le correnti che fiancheggiano la costa.
Affascinante è anche la tecnica usata dai traboccanti per pescare: le ampie reti vengono calate a mare con un argano girevole fissato nel centro della piattaforma. Di tanto in tanto, vengono rialzate un poco sul livello del mare. I pesci intrappolati, per lo più cefali, spigole, aguglie, e pesce azzurro in generale, restano sospesi fuori dall’acqua, nel cavo della fittissima rete, guizzando in uno scintillio di luce, finchè non vengono tirati su con un guadino (la “volega”).
Le origini dei trabocchi sono in parte ancora oscure. Pare comunque certo che la loro costruzione risalga all’VIII sec. d.C., quando contadini-pastori, non esperti di flutti e di barche, intuirono però che potevano integrare il loro raccolto agricolo, proiettandosi sul mare aperto con veri e proprio prolungamenti della terra, ovvero con palafitte piantate sugli scogli sottostanti. I primi traboccanti, dunque, non sarebbero stati pescatori, ma agricoltori che avevano capito che, raggiungendo con costruzioni artificiali posizioni avanzate sul mare, avrebbero potuto trarre dalle acque il sostentamento necessario, per integrare i magri frutti offerti dalla coltivazione delle loro scomode e poco fertili terre costiere.
Oggi, dopo un periodo di scarso utilizzo e di oblio, i trabocchi sono tornati al centro dell’attenzione, anche grazie ad una legge della Regione Abruzzo, emanata nel 1994, che ne promuove il recupero, considerandoli importante patrimonio culturale e ambientale, vere e proprie opere d’arte da trasmettere ai posteri.
Grazie a questa legge, molti trabocchi, ormai in stato di degrado, sono stati recuperati e resi funzionanti, divenendo il vero motivo di attrazione della costa su cui sorgono.
La loro primitiva architettura, le vecchie reti, gli utensili di lavoro raccontano storie di epoche lontane ed emanano un fascino d’altri tempi, che accende l’immaginazione e stimola la curiosità di tutti coloro che al misterioso mondo dei trabocchi si accostano.
La Struttura urbana di Ortona si sviluppa dal suo nucleo storico medievale denominato “Terravecchia” con Il Castello Aragonese (1450), la Cattedrale di San Tommaso Apostolo e il Palazzo Farnese (1582) fatto edificare su progetto di Giacomo Della Porta da Madama Margarita D’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V, che acquistò Ortona per 52.000 ducati e che scelse come sua dimora a controllo delle sue terre d’Abruzzo. A coronamento con il mare, è di indubbia bellezza la Passeggiata Orientale, a sbalzo sul terreno che discende verso il Porto e che regala una vista mozzafiato su tutta la costa dei Trabocchi, Punta Penna del Vasto e fino a scorgere nitidamente nelle giornate ventose di tramontana tutto il promontorio del Gargano e della meravigliosa costa pugliese anticipate dalle stupende Isole Tremiti!
Elementi d’importanza storica- architettonica della città
Il complesso Sala Eden, giardini adiacenti, convento di S. Caterina (XVI secolo d.c.), la chiesa omonima (quasi certamente costruita prima dell’anno ‘mille’, anche se la struttura di oggi risale al XVII secolo d.c.) e la chiesa del Crocifisso Miracoloso (XIV secolo d.c.); il convento di S. Caterina (di S. Anna fino all’ inizio del secondo conflitto mondiale) con l’annesso Il chiostro del complesso oggi adibito a meso della battaglia, museo ex Libris, e biblioteca comunale; il monastero degli agostiniani (XVI secolo d. c.) in corso Matteotti, (ex sede dell’ Istituto Nautico, dell’Istituto Professionale di Stato e dell’Istituto Tecnico Commerciale, attuale sede degli uffici comunali e della palestra della scuola media “Pugliesi; il teatro Vittoria (1929 d.c.) oggi Teatro F.P.TOSTI è un elemento architettonico di indubbio valore posto sulla passeggiata Orientale. La fonte del Peticcio (XVI secolo d.c.) d’ importanza storica accertata, è stata recuperata l’ ultima volta nel 1823; la chiesa della Madonna delle Grazie (1440 d.c. circa), nella vecchia zona industriale di Ortona; la pietra di Morrecine (210 a.c.), elemento ricco di storia e di leggende, si dice sia una tomba funeraria di un generale di Annibale; la basilica paleocristiana di S. Marco sotto il colle dell’ “Acquabella” (collocabile tra il V ed il VII secolo d.c.), con i resti leggibili delle mura perimetrali alte mediamente un metro; le due storiche ed importanti torri costiere, Mucchia e Moro (1568 d.c.).
L’area del centro urbano di Ortona, che oggi all’incirca si estende dal Castello Aragonese a Piazza della Repubblica, è un sito di antichissimi abitatori. Esso, sul piano geografico, è costituito da un colle lungo e sottile che avanza verso il mare; certamente duemila-tremila anni fa esso era più lungo di 100-200 metri verso il mare, rispetto ad oggi, con una parte franata nei secoli. Questo sito era facilmente difendibile: a nord ovest un lato era chiuso da un lungo fosso che si internava, molto più profondo di quanto potrebbe apparire oggi; a nord est e ad est c’era il mare; solo verso sud, una stretta lingua di terra collegava il sito con l’area oggi urbanizzata. Il sito, per motivi di facile difesa ed anche perché ricco di sorgenti d’acqua, attrasse i primi abitatori stanziali. In seguito agli scavi archeologici eseguiti dalla Soprintendenza alle Antichità di Chieti all’interno del Castello Aragonese sono state trovate tracce di un agglomerato di capanne con arredi interessanti, risalente al XV secolo avanti Cristo. A questi abitatori preindoeuropei si aggiungono, verso l’VIII-VII secolo, provenienti dalla penisola balcanica attraverso l’Adriatico, abitatori protoindoeuropei (o illiri, secondo la tradizione), che si collocarono sui colli prospicienti il mare; di costoro ci sono importanti arredi funerari da tombe.
Le abitazioni, di pietra, terra, legno o di resti di naufragi, sorgono sui cigli del colle lungo e stretto, sia ad ovest sia ad est, prospicienti il mare e le rive dove c’erano gli approdi con le barche. La linea centrale del lungo colle, non edificata, diventa la strada principale, il percorso sud-nord.
Verso il VI-V secolo a. C. arrivarono da sud i Frentani, popolo sannitico; in una successiva trasmigrazione avevano superato il Frentum (Fortore), da cui il nome. Essi si stanziarono nell’area Buca (Termoli), Histonium (Vasto), Anxanum (Lanciano), Ortona. Verso il VI-V secolo non c’è più l’agglomerato di capanne proto o preindoeuropeo, ma una urbs, una città organizzata da una tribù italica ben coesa, con la sua struttura politica e civile, come testimoniano Tito Livio e Cicerone. Il nome “Ortona”, toponimo di origine non indoeuropea, acquisito dai nuovi abitatori, comincia a indicare l’urbs edificata, con case, vie, aedes. Ortona, quindi, di cui il sito Terravecchia è la parte più antica, non è una urbs romana, ma italica, che si è sviluppata come città organizzata lungo il percorso della via che correva sul colle, lungo la direttrice attuale Corso Vittorio Emanuele – Corso Matteotti – Castello. Il toponimo “Terraveccha” è citato nel 1576 da Giovan Battista de Lectis e nel 1645 da Francesco Brunetti per indicare la zona storica di Ortona. Anticamente, fino all’inizio del Quattrocento, la zona era denominata Contrada del Borgo. Nel corso del XV secolo, con l’espansione della città lungo l’asse dell’attuale Corso Vittorio Emanuele, la nuova zona di insediamento assume il nome di “Terranova” e, in contrapposizione a questa, il primitivo insediamento venne denominato “Terravecchia”. Dalla sua via principale su entrambi i lati si sviluppava l’edificazione con pietre e laterizi di un piccola urbs di pescatori, marinai, agricoltori. Ortona era il porto dei Frentani, il loro “epineion”, come ricorda il geografo greco Strabone (primo secolo). La urbs italica e poi romana (330 a. C.- 470 circa d. C.) doveva essere fortificata.
Certamente lo era nel periodo bizantino (540-670), come testimonia in una lettera del 599 Papa S. Gregorio Magno. Egli scrive di una “porta”, presso cui c’era l’antichissima chiesa, di S. Giovanni. Il termine implica una cinta muraria in cui c’erano “porte”. In questo sito di Terravecchia fu collocata l’antica cattedrale, sede dei vescovi, attestati dal V al IX secolo, sicuramente chiesa paleocristiana e poi bizantina; ancor oggi sulle mura della cattedrale di S. Tommaso sono individuati reperti bizantini. Anche il geografo greco Giorgio di Cipro, nei primi anni del VII secolo, cita Ortona come “kastron”, ossia luogo fortificato, dei bizantini. La cittadina fiorì con i traffici del suo porto che probabilmente in età italico-romana e bizantina si trovava nel sito a nord ancora oggi chiamato “lo scalo”.
Il sito di Terravecchia era quindi edificato, con una struttura viaria medievale, lungo assi interne parallele alla via principale, come l’attuale Via Morosini, la più interessante nel sistema urbanistico. Dalle assi interne e dalla via principale si dipartono a pettine vicoli stretti. Il sito “terravecchia” mantenne la sua identità dopo il periodo buio longobardo-franco-borgognone e sino all’epoca normanna e sveva (1080-1270 circa). Nell’XI-XII secolo i traffici attraverso il porto assunsero una grande importanza per lo sviluppo della comunità, favoriti dalla presenza delle Fiere di Lanciano. Enrico VI e Federico II con i “capitulari di bajulazione” accrebbero lo sviluppo delle attività portuali. In tal modo Terravecchia era il sito dove soprattutto vivevano quanti erano legati alle attività del mare e del porto. La città continuava il suo sviluppo con l’età angioina, come ricordano i bei versi di Giovanni Ceccario (inizio XIV secolo). Terravecchia era il fulcro della cittadina e ha conservato molti reperti, architettonici e scultorei, dei secoli dal XIII al XVII secolo. La città era stata fortificata già nell’età sveva sino all’attuale Porta Caldari, con il “palazzo publico” che era da allora nell’area attuale di Piazza della Repubblica, cerniera tra “terravecchia” e “terranova”, il nuovo quartiere.
Ma Terravecchia rimaneva il nucleo vero, il cuore pulsante della città medievale, intensamente edificata: accanto alle abitazioni più semplici di pescatori, marinai, artigiani, le famiglie della borghesia mercantile e della nobiltà fabbricarono i loro palazzi, con caratteristiche che divennero più marcate dall’epoca rinascimentale con grandi edifici, con portali a bugnato, pozzi interni e stemmi. Come quasi sempre avveniva nella edificazione medievale, non si distruggeva del tutto ciò che esisteva, ma si aggiungeva nuova edificazione, con materiali recuperati.
Così il sito di Terravecchia è rimasto quasi integro per secoli, con i suoi vicoli, larghi a volte un metro, con i suoi palazzi e casupole, con i suoi archi negli angiporti (oggi se ne contano ancora diciannove), con la chiesa cattedrale che è un susseguirsi di interventi edificatori sovrapposti, in cui però la parte sveva e angioina (XIII-XIV secolo) è predominante, molto ben distinguibile. Purtroppo la distruzione bellica, iniziata dal 21 dicembre 1943, quando la facciata della cattedrale e la torre civica del XIII secolo furono fatte saltare in aria dai tedeschi, e terminata nel maggio 1944, e una ricostruzione non attenta, ma frettolosa dati i tempi, causarono la dolorosa scomparsa di antiche chiese e palazzi.
Tuttavia è rimasto abbastanza, anche se a volte appare nel degrado, per l’incuria di persone non attente ai valori dell’antico che testimoniano l’identità ricca di una comunità che ha camminato per molti secoli, attraverso momenti di prosperità, ma spesso attraverso distruzioni causate dalla natura e dagli uomini.
Il nostro itinerario inizia dall’attuale Via Cavour dove si trova il Palazzo Municipale, o Palazzo publico, come viene indicato nella “Mappa agostiniana” del 1583. Fino al XVIII secolo il palazzo, oltre alla sede dell’Università, ospitava anche gli Uffici della Regia Corte; i locali al piano terra erano invece adibiti a carcere. Fino all’inizio del Novecento l’edificio era composto dal piano terra e dal primo piano; solo nel 1926 fu edificato il secondo piano che, inizialmente, ospitò anche la Biblioteca Comunale. L’intero edificio fu ristrutturato nei primi anni del dopoguerra.
Scendendo lungo Via Cavour, l’antica Strada delli Macelli, di fronte all’attuale mercato coperto, insiste il Palazzo Gervasoni (numeri civici 10-16), edificato intorno alla fine XVI secolo, con portale a bugnato. La famiglia Gervasoni, arrivata in Ortona all’inizio del Seicento da Bergamo, era dedita al commercio. Fu committente di alcune opere pittoriche conservate nel Museo Diocesano. Un suo esponente, Domenico Gervasoni, fu Arcivescovo di Lanciano dal 1770 al 1784.
L’identificazione del palazzo risulta abbastanza agevole in quanto, in un atto notarile del 1608, il ricco mercante Cesare Gervasoni (1578-1648), tra le altre proprietà, possiede “una casa sita nella strada della Bucciaria o del Macello”, primo tratto dell’attuale Via Cavour. Inoltre, nel Catasto Onciario del 1751, viene specificato che Giovan Battista Gervasoni abitava “in casa propria Palazziata, con cortile e cisterna d’acqua sita nella Strada grande di Terravecchia, giusta da un lato il Palazzo di questa Città, e da tre, Strade pubbliche. Sotto il quale vi è un trappeto macinante da oglio …”.
Da questo palazzo, all’epoca disabitato, il 18 febbraio 1799 alcuni ortonesi spararono contro i Francesi che, provenienti da Pescara, attaccavano la città dalla Porta del Carmine. In seguito il palazzo passò alla famiglia Priori e quindi ai De Dominicis e agli Onofrj.
Dell’antico edificio si conserva un portale lapideo con arco a tutto sesto fortemente aggettante e di notevole corposità contornato, sia sui piedritti che sull’archivolto, da bugne; queste sono di due tipi, a punta di diamante ed a cuscino liscio. Quattro conci a base rettangolare frapposti con una doppia bugna a punta di diamante formano il piedritto che termina con una cornice modanata sulla quale imposta l’arco, costituito da sette conci trapezoidali sempre intercalati da una doppia punta di diamante rastremata. La chiave di volta non è allungata ma contigua ed uniforme agli altri conci; la sua forma tozza ma possente enfatizza l’entrata di una sobria facciata.
Ci spostiamo, quindi, verso Piazza Plebiscito, dove si fermano gli autobus. Sono direttamente visibili alcune arcate in muratura che testimoniano antiche costruzioni di caseggiati che si affacciavano verso la piazza. Le arcate sono databili probabilmente verso il XVII secolo. La piazza, infatti, è nata da un riempimento compiuto in parte nel XIX secolo. Al di sotto della piazza erano collocate le “niviere”, cavità che nell’inverno venivano riempite di neve che era venduta nei mesi caldi.
Fondaci medievali
Sotto le arcate sono state recuperate di recente, già individuate nel 1942, presenze medievali di notevole valenza: fondaci con volte a crociera e di impostazione gotica, scala a chiocciola con gradini lapidei autoportanti, un ingresso con arco inflesso di origine moresca sormontato da uno stemma di una famiglia non ancora identificata, probabilmente di origine cavalleresca e legata al Pellegrinaggio in Terrasanta; è presente anche una cisterna di forma circolare con pilastro centrale e voltatura torrica di epoca precedente, probabilmente romana.
Cinta muraria e Madonna acefala
Andando lungo Via Gabriele d’Annunzio, il visitatore vede sulla sua destra resti di antiche mura. Facevano parte della cinta muraria della città ristrutturata dal condottiero Giacomo Caldora quando nel 1435 ricevette in feudo la città. Le mura e le relative porte furono abbattute nel 1868.
Via d’Annunzio è stata realizzata nel secondo dopoguerra e, pur costeggiando l’antica cinta muraria, ha mutato profondamente il sito ricoprendo una parte del fosso Ciavocco.
Nel primo tratto della cinta, a circa quattro metri d’altezza, c’è una statua incastonata tra le pietre: un piccolo gioiello di scultura medievale; ignoto è l’autore e non chiaro il motivo della collocazione della statua in quel punto. La statua rappresenta una Madonna seduta con un Bambino in braccio, sulla sinistra; la Madonna e il Bambino sono senza testa, acefali. Il drappeggio del vestito, la forma delle mani, l’atteggiamento dell’insieme, la tipologia scultorea indicano la fattura medievale dell’opera. Essa somiglia abbastanza ad un’opera di Arnolfo da Cambio, “Madonna con il Bambino”, 1300 circa (oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze). La statua misura circa 90 centimetri di altezza.
Realizzata nel 1300 circa, nella prima metà del XV secolo, al momento della ristrutturazione delle mura, la statua fu posta lì forse per un fine apotropaico, ossia per allontanare il male, magari gli eventuali assalitori.
Torre Baglioni
Proseguendo lungo Via Gabriele d’Annunzio, a metà cammino il visitatore incontra una torre, opera risalente probabilmente al XIII secolo, parte integrante della cinta muraria. Benché in parte deturpata da edificazioni contigue successive, la torre si delinea netta nella sua architettura: ben salda nella costruzione fu edificata con il tipico materiale di costruzione locale formato da pietre arenarie e laterizio.
Appartenne anticamente ai baroni Bernardi di origine lombarda. Nel 1780 passò ai marchesi Salzano de Luna, napoletani di origine spagnola, e quindi, agli inizi dell’Ottocento, ai Conti Baglioni di Civitella Messer Raimondo i quali, dopo l’Unità d’Italia, si trasferirono a Chieti. La sua struttura, di forma quadrangolare, si ergeva sopra la cinta muraria nei pressi della prima porta della Marina che dalla città conduceva allo “Scalo”. Questo era il porto di origine italico-romana presso la foce del torrente Peticcio, a nord del Castello. Strabone, geografo greco del I secolo a. C., definisce Ortona “epineion”, ossia porto-arsenale dei Frentani. Dalla Porta, nei pressi della Torre, si accedeva nella città medievale. Al termine di Via d’Annunzio si erge il Castello aragonese.
Il Castello aragonese
“Sul fine del colle, e della Città, s’innalza qui un castello di non vulgare architettura, e che una volta dovett’essere inespugnabile per l’erta situazione, pei larghi fossi, per la solidità delle mura, e de’ terrapieni, e per le sotterranee uscite, e finalmente per altro castello, o torre interna, che serviva di ritirata”. Con queste parole l’abate Domenico Romanelli descriveva il maniero nel 1807.
La struttura difensiva fu realizzata dopo che i Veneziani, nel giugno 1447, avevano distrutto lo scalo ortonese e il borgo marinaro con i magazzini e l’arsenale, giungendo fin sotto le mura cittadine. Venne edificato, per Decreto Reale ed a spese di tutta la provincia di Abruzzo Citra, sul promontorio denominato la Pizzuta, allora più prolungato sul mare, e su fortificazioni preesistenti. La fortezza era ancora in costruzione nel 1469, anno in cui era presente in Ortona Alfonso d’Aragona Duca di Calabria. E’ probabile che sia stato ristrutturato, e in parte modificato, tra il 1492 e il 1494 dall’architetto ed ingegnere militare senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) in quanto in quel periodo questi, al seguito del Duca di Calabria e futuro re di Napoli, era impegnato ad ispezionare le fortezze dell’Abruzzo e della Puglia. Questa tesi è avvalorata dal sistema costruttivo e da alcuni elementi architettonici quali cordoli, finestrature, feritoie, e il “saliente”, che appare nella struttura superiore, simili a quelli esistenti nella Rocca di Sassocorvaro, in quella di S. Leo e nel Castello di Otranto, tutte opere attribuite a Francesco di Giorgio Martini.
Nel 1485 furono imprigionati e torturati nelle sue segrete il dottor Francesco di Lucoli, il notaio Antoniuccio di Pianella e Domenico di Montorio, partigiani dei Caldora e dei Camponeschi di Aquila, famiglie ribellatesi ad Alfonso d’Aragona Duca di Calabria e Vicario del Regno. Di questo periodo sono i primi castellani appartenenti alle casate Valignani di Chieti e Riccardi di Ortona.
Gli architetti militari spagnoli ristrutturarono e modificarono la fortezza dopo la metà del Cinquecento, eliminando il mastio centrale ed aggiungendovi una torre più piccola lungo le mura occidentali. Durante il XVII secolo, in pieno periodo farnesiano, il castello, ormai in degrado, veniva amministrato dalla famiglia de Sanctis.
Nel 1795 la fortezza fu ceduta dal Regio Demanio in enfiteusi perpetua alla famiglia Moro, per poi passare nel corso del XIX secolo ai Massari, ai Teti, e ai coniugi dott. Gustavo de Luca e Donna Teresa Visci che vi aggiunsero costruzioni abitative al lato orientale, trasformando la piazza d’armi in ridente giardino, ed ospitandovi illustri personalità quali il pittore Francesco Paolo Michetti e il poeta Gabriele d’Annunzio. Così il poeta descrive il Castello di Ortona in una lettera scritta a Barbara Leoni il 26 marzo 1891: “… Quel castello solitario rispondeva al mio sogno modesto. Poche stanze costruite su i bastioni componevano tutta la parte abitabile; e su i bastioni correvano lunghi pergolati, e una veranda si sporgeva sul mare. L’ingresso era ricavato nella grossezza del muro, come in una roccia. Gli olivi e gli alberi fruttiferi tutti in fiore empivano i fossati”.
All’inizio del secolo scorso il castello passò in proprietà ai Nigro e quindi ai Bernabeo. Questi cedettero la loro parte, i due terzi, al Comune di Ortona. Il Comune che, successivamente, acquistò l’ultimo terzo. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale il castello subì pesanti bombardamenti e nel 1946 una frana fece crollare tutta l’ala verso il mare.
Lo studioso Carlo Perogalli ha indicato il maniero come “l’esempio meglio definito di castello abruzzese appena dopo la metà del Quattrocento”.
Nell’ultimo decennio è stato realizzato il restauro dell’importante struttura. Durante i lavori ad opera della Soprintendenza alle Antichità sono stati condotti, all’interno del Castello, scavi che hanno restituito reperti di notevole importanza, tra cui, oltre a manufatti bizantini, una capanna neolitica con reperti in ceramica del XV secolo a. C. e una cisterna di epoca romana.
Sulla destra della fortezza era situata la seconda Porta della Marina, sicuramente di epoca più recente, interrata alla fine dell’Ottocento. Resta, comunque, l’antica strada a gradoni che, partendo da questa porta, conduceva al porto.
Corso Matteotti, l’antica “Strada grande di Terravecchia”
Per tutto il medioevo e sino all’Unità d’Italia la strada da Piazza della Repubblica al Castello è citata nei documenti come Strada grande di Terravecchia. Dopo l’Unità e fino al 1948 l’intera strada da Porta Caldari al Castello venne intitolata a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia. Dal 1948 il tratto da Piazza della Repubblica al Castello è intitolato a Giacomo Matteotti.
Risalendo lungo Corso Matteotti, sulla destra, troviamo l’antico Monastero degli Agostiniani (sec. XV).
Costruito nei pressi della più antica Porta della Marina, l’edificio, nel corso dei secoli, ha subito numerosi rifacimenti per cui delle antiche linee resta integro soltanto il portale. All’interno esso mantiene tuttora la tipica conformazione conventuale: si riesce ad individuare ancora, nonostante sia stato in parte trasformato in palestra, l’ampio chiostro con il porticato trasformato in corridoio di accesso alle varie stanze. Dopo la soppressione dei piccoli conventi (1653) l’edificio è stato adibito a Seminario della diocesi di Ortona e Campli. Nel corso del secolo scorso la struttura è stata utilizzata come sede di vari istituti scolastici. Attualmente accoglie gli uffici della Ripartizione Demografica del Comune.
Il fabbricato ha conservato il suo volume originario anche se nel tempo ha subito vari interventi manutentori che hanno modificato sia l’immagine architettonica che la destinazione d’uso. Ancora oggi sulla facciata principale si può apprezzare l’antico portale. Un portale lapideo ed austero nella sua compostezza, realizzato secondo lo stile gotico, ma con una forte permanenza dei caratteri romanici. E’ composto da due lesene sorreggenti un architrave sormontato da un arco acuto. La lesena, che poggia su una base classica, presenta una nastratura perimetrale completa di modanatura che delimita un pannello incassato; in questo sono scolpite quattro scanalature con rudente nel terzo inferiore. Molto interessante il capitello di formazione tronco piramidale rovesciato, otto scanalature nella parte inferiore coronate da una modanatura a ovoli e dardi costituiscono l’echino compreso tra l’astragalo e l’abaco. L’architrave, nella sua faccia verticale delimitata con la stessa finitura delle lesene, presenta, nel pannello incassato, un fregio che rappresenta un colonnato sormontato da tredici archetti trilobati a sesto acuto; una cornice con modanature classiche definisce la trabeazione. L’arco acuto che definisce il timpano, formato da una fascia liscia incorniciata da un rudente ed un listello, evidenzia e completa l’apertura.
Contiguo al convento agostiniano era il palazzo dei baroni Bernardi che è stato quasi completamente distrutto nel 1943-44. In esso, nel corso del XVI secolo, vennero ripetutamente ospitati il Viceré di Napoli Carlo di Lannoy, feudatario di Ortona, e i suoi discendenti. Nel 1656 questo palazzo “sito in Strada Magna Terrae Veteris” era abitato dal barone Fabrizio Bernardi. Nel 1751 il palazzo di proprietà di Tommaso Bernardi, viene così descritto: “… casa Palazziata, sita nel Rione di Terravecchia, confinante colli beni del Seminario, della Mag.ca D. Maria Camilla Bernardi, davanti la strada pubblica, ed altri confini, e sotto di esso Palazzo vi è un orticino per uso proprio”. Un ramo della famiglia, i Bernardi-Patrizi, vi abitò fino al 1920.
Dell’antico edificio restano elementi interessanti nella parte interna con degli anditi con struttura voltata a crociera, due archi con volte ogivali, e un piccolo cortile con pozzo ottagonale.
Palazzo Corvo
Sito lungo Corso Matteotti appartenne ai Corvo, baroni di Torre Cerviglioni e nobili di Sulmona, con proprietà in Ortona dalla seconda metà del Seicento allorquando trassero parentela con i de Pizzis. Nel 1895 passò agli Araneo, pure di Sulmona, e nel 1920 ai duchi Rivera de L’Aquila per poi tornare ai Corvo dieci anni dopo. L’ultima proprietaria, donna Marietta, con testamento del 12 marzo 1950, lasciò l’immobile alla Curia Vescovile che lo alienò, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, a favore del Comune di Ortona che ne effettuò il restauro. La sua struttura si fa risalire alla fine del Cinquecento anche se il piano terra è di epoca precedente. Esso, probabilmente, faceva parte di una struttura conventuale, ipotesi accreditata dalle iscrizioni latine d’ispirazione religiosa sugli architravi dei portali in pietra lungo l’androne la cui pavimentazione è a selciato.
Nel 1726 l’edificio, momentaneamente disabitato, fu utilizzato per l’acquartieramento di ufficiali a capo di truppe di passaggio. Dall’Onciario, il catasto della città di Ortona del 1751, veniamo a conoscenza di “una casa Palazziata ed isolata di più e diversi membri sita avanti la chiesa di S. Domenico, in luogo di Terra vecchia, giusta davanti da dietro e da lati le strade pubbliche” era di proprietà di Pietro Corvi della città di Sulmona. A quella data il palazzo era abitato dall’abate Filippo Valignani, di Chieti, imparentato con alcune casate nobili di Ortona.
Un fabbricato austero ad isolato elevato per tre piani, dove dalla severità del fronte principale emergono pochi elementi caratterizzanti: un portale con sovrastante balcone e quattro finestre, tutti in pietra. Il portale con arco a tutto sesto è costituito da bugne a cuscino rusticate e il concio di chiave di volta, nella sua faccia inferiore, porta inciso lo stemma bernardiniano IHS; il portale è direttamente sormontato da un balcone sorretto da sei mensole che lo definisce in un blocco unico dando un’impressione di grande possanza e stabilità oltre che rimarcare lo status famigliare. Le finestre anch’esse contornate da bugne sugli stipiti e l’architrave, poste nei quattro angoli contribuiscono ad evidenziare il rigore compositivo della facciata. Conci d’angolo rivestono e definiscono i due spigoli del palazzo; costituiscono un elemento di rilievo dove contrastano con i paramenti murari piani delimitando il blocco isolato.
Nell’ultimo locale a sinistra, a piano terra, è presente una cisterna di formazione a bottiglia. Tutti i locali al piano terreno hanno una volta in mattoni a vela con unghiature e riquadro a piatta banda centrale. Nel salone al primo piano si conserva ancora un soffitto ligneo con decorazione floreale di bella fattura.
Attualmente nei locali al piano terra è ospitata l’Enoteca Regionale, mentre al primo piano ha sede l’Istituto Nazionale Tostiano con il Museo Tostiano, l’archivio F. P. Tosti e la Biblioteca Musicale d’Abruzzo.
Subito dopo appare Vico del Gusto, un’antichissima stradina ancora perfettamente lastricata a basolato.
Palazzo Colangelo (già de Zelis)
Sulla sinistra, dopo Palazzo Corvo notiamo, ai numeri civici 75-70, un bel palazzo appartenuto nel XVIII secolo alla famiglia de Zelis originaria di Francavilla, poi passato alla famiglia di armatori Colangelo.
Il fabbricato è di impostazione neoclassica elevato per tre piani, con tre portali al piano terra realizzati in laterizio di cui uno con decorazione tipica di fine Ottocento. Nei due piani superiori, una ritmica di aperture proporziona i pieni dai vuoti. Belle le ringhiere in ghisa che adornano i balconi di facciata. All’interno si apprezza un cortile con gradinata ornata con colonne tuscaniche su due lati con voltine a crociera.
Di fronte, al numero civico 100, c’è Palazzo Mené, appartenuto, nell’Ottocento, ai Fonzi Cruciani. I primi due piani furono edificati nel Settecento. Il secolo successivo, verso il 1870, l’edificio fu acquistato dai Mené che lo innalzarono di un piano. A piano terra si ammira un bel portale lapideo con bugnato a fasce. Nei piani superiori sono visibili finestre con stipiti e mensola al primo, mentre al piano secondo abbiamo le finestre con balconi con mensole e timpani circolari. Si accede all’interno attraverso un andito coperto a botte il quale ci immette in un cortile a forma quadrangolare delimitato da quattro colonne che sorreggono il ballatoio superiore. Le voltine a padiglioni ribassati sono di bella esecuzione.
Proseguendo il cammino scorgiamo, a sinistra, un interessante angiporto, interamente coperto da una volta, che conduce a un largo laterale di Via Leone Acciaiuoli. L’angiporto è delimitato sui due lati da murature in “opus incertum” con la presenza anche di grossi blocchi lapidei che ci permette una chiara lettura della sua origine alto medievale. L’angiporto è coperto da una volta a botte in laterizio.
Di fronte, sulla destra, è l’angiporto di Vico Bonelli, largo circa un metro, coperto quasi per intero da volte e archi. Conduce a Via Episcopio da una parte e dall’altra a una scalinata di recente realizzazione che porta a Via d’Annunzio. Il primo tratto, quello più stretto, nella sua prima parte è coperta con volta a botte mentre nella parte successiva lascia intravedere il cielo. Si notano dei contrafforti e nella parte del piano terreno si nota la stessa muratura, anche se con la presenza di laterizi, simile all’angiporto già descritto. A sinistra la strada si allarga leggermente continuando la stessa impostazione muraria, sempre con la presenza di contrafforti e gradinate di accesso ai piani superiori. Il tipo di costruzione e il sistema viario individuano una impostazione medievale probabilmente originaria. Questo zona di Terravecchia attorno a Vico Bonelli può essere considerata la parte medievale più antica.
Riprendendo Corso Matteotti, sulla sinistra, troviamo un grosso palazzo attualmente in fase di restauro.
Palazzo Mignotti
Il palazzo (numeri civici 65-69) fu realizzato verso la fine del XVIII secolo dalla famiglia Mignotti venuta da Alessandria agli inizi del Seicento, su abitazioni preesistenti di sua proprietà. Successivamente passò ai Mancini e poi ai Grilli. Dopo la sua realizzazione, la famiglia Mignotti vi fissò la sua dimora abbandonando il vecchio edificio sito nell’attuale Via Morosini.
Una costruzione con paramenti murari in mattoni a faccia vista, composto da piano terra, piano primo ed attico. Una facciata misurata, ma ricercata dove si apprezza la corretta composizione delle aperture, tutte corniciate, un equilibrio tra vuoti e pieni, due portali e tre finestre quadre al piano terra, cinque finestre correnti su cordolo di interpiano al secondo livello e cinque aperture ellittiche all’attico, unico esempio nell’architettura ortonese, tutte perfettamente in asse contribuiscono ad accentuare la voluta simmetria del prospetto.
Al piano terra, dentro un locale a destra, si trova un pozzo ornato da vera lapidea; un ampio vano attiguo era adibito a frantoio (trappeto); in un piccolo locale contiguo, durante recenti lavori di restauro sotto la sorveglianza della Soprintendenza alle Antichità, sono state individuate alcune sepolture di bambini (locus angelorum) a due metri di profondità, di epoca bizantina. Al primo piano alcuni locali prospicienti Corso Matteotti presentano affreschi di periodo ottocentesco su pareti e volte.
Sempre sulla sinistra, ai numeri civici 55-61, insiste
Palazzo Pugliesi
La sua costruzione dovrebbe risalire intorno alla metà del Settecento. Appartenuto nel XVIII secolo ai Caraceni, famiglia di ricchi commercianti, passò ai Pugliesi che già possedevano una casa nelle immediate adiacenze. Sul portale di un locale a piano terra è scolpito un piccolo stemma con un albero; la parte superiore del portale reca il motto “OPPRESSA ERIGO”. Il palazzo è importante perché in esso ebbe i natali il canonico ortonese Domenico Pugliesi (1808-1850) insigne uomo di cultura, Deputato al Parlamento di Napoli e fervente patriota. Pugliesi nel 1835 aprì in Ortona un ginnasio privato che in poco tempo si popolò di allievi provenienti da tutto l’Abruzzo. Proprio nelle vaste sale di questo palazzo nella prima metà dell’Ottocento furono educati alti ingegni della cultura abruzzese. Fra questi ricordiamo Francesco Auriti, Deputato, Senatore e Procuratore Generale della Gran Corte di Cassazione in Roma; Francescopaolo Bruni, poeta, letterato, filosofo che fu Rettore del Collegio Medico di Napoli e Regio Provveditore agli studi; il poeta Gianvincenzo Pellicciotti, i fratelli Nicola e Pasquale Castagna, entrambi letterati. In alcune sale esistevano affreschi del pittore ortonese Florideo Cincinnati (1829-1885).
Nel 1878 il palazzo passò ai conti Guerrieri di Rimini, imparentati con i Pugliesi, nel 1881 ai D’Alessandro e poi a più privati.
Un palazzo importante nel suo volume con un fronte di impostazione settecentesca ma con forti influssi di classicismo. Le tre elevazioni sono scandite da cornici marcapiano. Al piano terra sono presenti ben quattro portali, due centrali di maggiore importanza e due laterali, tutti con arco a tutto sesto e contornati da bugne in laterizio di bella fattura; il piano primo e definito oltre che dai cordoli da una successione di finestre con intercalare di balconi, il livello superiore è definito da balconi in asse con le aperture sottostanti, tutte sono contornate da una cornice modanata e ornate di frontone triangolare e segmentale, alternati sia in linea che per piano. A finitura della facciata c’è una bellissima trabeazione, il fregio delle metope semplici separate da triglifi scanalati definiti da tenia con corrispondenti gocce; sopra c’è una cornice sporgente smussata nella parte inferiore e portante mutuli, di chiara ispirazione dorica; ogni mutulo è decorato con una rosa a otto petali. Conci d’angolo, anch’essi in laterizio definiscono l’edificio. Tutti questi elementi in mattone a vista creano una dicotomia con i muri piani intonacati e ne accentuano la rigorosa simmetria del fronte.
Palazzo Grilli
Di fronte a Palazzo Pugliesi, ai numeri civici 66-86, è possibile ammirare Palazzo Grilli. Fu fatto edificare verso il XVII secolo da un ramo della famiglia de Sanctis, baroni di Civitacquana e fu ristrutturato nella metà del Settecento dal barone Andrea Matteo (1696-1755). A quel periodo risalgono anche gli affreschi che decorano il salone del piano nobile. Suo figlio, il barone Armidoro (1731-1813), uno dei protagonisti della rivolta antifrancese del 1799, vi ospitò nel 1807 Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, in visita in Abruzzo.
Questo palazzo, censito nel Catasto del 1751 come abitazione di Andrea Matteo de Sanctis, viene descritto “… con due cortili e cisterna d’acqua, sita in Strada grande di Terravecchia giusta davanti la strada Maestra, da dietro la Strada Bonelli, da un lato la casa del Rev.do D. Giuseppe Zuccaro, dall’altro lato la casa dell’Edificio di S. Tommaso Ap.lo, che si tiene in enfiteusi dal Rev.do D. Diodato Elia, tirando con un braccio sin sopra l’inforzi e di sotto un pezzetto di terreno …”.
Il palazzo presenta una interessante facciata con lesene in cotto e loggette originali con ringhiere in ferro battuto. All’interno, negli ampi saloni, si trovano affreschi settecenteschi di autore ignoto. Contribuiscono ad ornare la facciata dei bei ed eleganti balconi di stile mediterraneo.
Alla destra del cortile, nel locale d’accesso alla scalinata che porta al piano nobile, è conservato un bell’esemplare in pietra, risalente al XVI secolo, dello stemma dei de Sanctis con il leone rampante e le tre P. P. P. (Pugna Pro Patria).
L’importante edificio intorno al 1880 passò alla famiglia Grilli, attuale proprietaria.
Palazzo vescovile
Proseguendo verso la cattedrale, in fondo a Via Episcopio, troviamo l’antico Palazzo vescovile. Fu riedificato e ampliato tra il 1780 e il 1790 da mons. Domenico de Dominicis, vescovo di Ortona e Campli (1766-1791).
Oltre alla facciata, in cui si notano gli elementi caratteristici dell’architettura settecentesca, sono degni di nota l’ampio androne del piano terra e la scalinata di accesso al primo piano dove troviamo una caratteristica sala ovale.
L’impianto originario, comunque, dovrebbe risalire alla metà del XVII secolo. Il palazzo è menzionato nel Catasto Onciario della Città di Ortona del 1751: “Un Palazzo per abitazione di Mons. Vescovo sito attaccato alla Chiesa Cattedrale di S. Tomaso Ap.lo, giusta f. nel quale vi è un orticino per propria delizia”.
Uscendo da Via Episcopio entriamo in Piazza S. Tommaso. Questa, chiamata dagli ortonesi “il Piano”, fino al 1943 era la metà dell’attuale. La parte della piazza che dà verso il Castello era occupata dal palazzo dei baroni de Thinis (XVI secolo), danneggiato dalla guerra e non ricostruito.
Cattedrale di S. Tommaso
Una lapide, attualmente conservata presso il Museo Diocesano, testimonia la dedicazione a S. Maria Regina degli Angeli del tempio ricostruito dopo la distruzione ad opera dei Normanni e di un violento terremoto. In questa chiesa, che era quella principale di Ortona, il 6 settembre 1258 il “pio cittadino ortonese Leone”, tornato dalla lontana isola di Chios con tre galee da lui guidate, consegna all’abate Jacopo, allora arciprete della comunità, una cassetta contenente le reliquie dell’apostolo Tommaso con la lapide tombale.
Il primo agosto 1566 la chiesa fu incendiata dai Turchi, ma dieci anni dopo era già completamente ricostruita. Nei primi decenni del Settecento furono costruite la cupola con tiburio e la facciata. L’attuale cupola e la facciata furono realizzate nel 1947 a seguito della distruzione bellica (21 dicembre 1943). La facciata odierna denota una successione di interventi edificatori dovuti a distruzioni precedenti. Questo giustifica una non chiara identità architettonica dell’edificio. Sono tuttavia presenti testimonianze architettoniche di varie epoche e di notevole spessore.
L’abside su Via Episcopio, di formazione poligonale, presenta all’esterno costoloni lapidei che terminano con degli spioventi; la struttura appare di epoca sveva.
La chiesa, nei secoli, ha subito distruzioni e dissesti di origine statica. Questi hanno determinato inevitabilmente interventi di ricostruzione, di ampliamento e di manutenzione che hanno profondamente mutato l’opera originaria rendendola un coacervo di identità stilistiche. Sicuramente la basilica nasce come paleocristiana poi bizantina, romanica, gotica e così via fino al “postbellico”.
Tutti questi stili, escluso il paleocristiano, hanno lasciato una testimonianza più o meno visibile sia dentro che fuori dell’edificio. In particolare, all’esterno, sul lato sud il portale svevo, sul lato est il portale gotico ed un gruppo di pilastri a fascio con sovrastanti archi che ci parlano di bizantino, di romanico e di gotico. Il portale svevo, di impostazione tardoromanica, risente del periodo di transizione tra questo e il gotico; è ampio e riccamente decorato, caratterizzato da un’accentuata strombatura e dotato di archivolto che segue il profilo ad arco acuto del portale stesso, cordonato e scolpito con ornamenti serpeggianti e geometrici caratteristici degli svevi. Gli sguanci costituiti da pilastri modanati sono intercalati da due colonne a stilo con fusto liscio, poggiano su base classica e plinto e sono completi di capitelli con ornamentazione fitomorfa.
Il portale laterale ad est, realizzato da Nicola Mancino nel 1312, è fortemente caratterizzato dallo stile gotico italiano; uno zoccolo in pietra su entrambi i lati del portale sostiene i pilastri ornamentali scolpiti in pietra; su ogni lato ci sono quattro colonne a stilo tripartite alternate da quattro pilastri tutti con capitello ornato; le colonne si trovano libere tra due pilastri lisci ed hanno una decorazione astratta e narrativa molto sofisticata; i pilastri, anch’essi riccamente decorati, sono sormontati da un coronamento che costituisce l’arco ogivale strombato. Lo spazio racchiuso tra questo e l’architrave forma la lunetta. In questa sono poste tre sculture a tutto tondo: Madonna assisa con bambino, incassata in nicchia trilobata, affiancata da san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista. Tutto l’apparato lapideo scultoreo è sormontato da una guglia con cornice modanata e decorata con gattoni, tipico dello stile gotico, che racchiude e completa il portale.
Nel portale, nonostante la parziale distruzione, sono ancora visibili due gruppi scultorei con significati allegorici. Su una colonnina di sinistra appare un lungo tralcio di vite con grappoli il cui succo cade in un’anfora. Presso di questa, una figura, animale bipede e piumata nella parte inferiore, uomo nella parte superiore, beve dall’anfora. Il significato allegorico è chiaro. Il tralcio della vite è Cristo con il cui messaggio l’uomo dalla ferinità passa alla completa umanità. Sulla lunetta, san Giovanni Battista indica la vita che nasce, san Giovanni Evangelista la vita che finisce; al centro la Madonna porge il Cristo, salvezza dell’umanità.
Di particolare interesse sono tre pilastri completi di capitelli e sovrastanti archi ogivali sul lato est della cattedrale che ci raccontano molte cose. Da studi effettuati questi pilastri non possono essere coevi con la muratura esterna, ma inglobati in essa in un’epoca successiva, questi erano cruciformi e liberi, quindi dividevano la navata centrale da quella laterale; i capitelli sono di tipo prismatico differenti l’uno dall’altro, la decorazione è fitomorfa e non presentano una vera plasticità scultorea, ma un risalto moderato, piuttosto tipo traforo con uso di trapano. Su due dei tre pilastri, nei rocchi finali, appaiono lettere greche incise (tau e omega) che il mondo bizantino utilizzava come numerazione. Gli archi ogivali sono di un’epoca successiva, come si osserva dal materiale diverso e da un’altra lavorazione. Conferme sono presenti anche all’interno della cattedrale. Quindi un susseguirsi di stili architettonici, con cannibalizzazione di materiale lapideo. Tutti questi dati, supportati anche da notizie storiche e da reperti rinvenuti in alcuni scavi, ci possono favorire nel confermare l’ipotesi dell’origine paleocristiana-bizantina della basilica.
L’interno è costituito da unica navata con cappelle laterali. L’attuale cripta, l’antica cappella della Concezione di jus patronato della famiglia de Pizzis, è di architettura moderna in quanto ricostruita negli anni Sessanta del secolo scorso. In essa, sotto l’altare, sono conservate le ossa dell’apostolo Tommaso e la pietra tombale riportata da Chios, insieme con le sacre reliquie, dal pio Leone. Dal presbiterio si accede alla sala capitolare la cui volta a crociera di tipo a stella è sorretta da costoloni poggianti su teste mensole di epoca sveva.
Dall’interno della cattedrale si accede al Museo Diocesano dove sono esposte opere pittoriche di notevole interesse oltre a reperti lapidei di varie epoche e diversi artistici pezzi di argenteria sacra del Seicento e del Settecento.
Palazzo de Pizzis
A fianco del portale svevo c’è l’accesso a un’ala del palazzo de Pizzis che appartenne all’omonima famiglia. La presenza di questo nobile casato nella città risale almeno al XIII secolo ed è documentata da una lapide del 1251 in cui si legge che Ruggero de Pizzis, Rettore di Ortona, aveva inaugurato una fonte a mare.
Nel vano di accesso al palazzo (Vico dell’Orologio) sono ancora presenti stucchi di bella fattura di cui uno ci è pervenuto pressoché integro. Questo, che insiste sulla volta a botte della scala, raffigura una conchiglia, decorazione tipica dell’architettura barocca; anche la scalinata è coeva. All’interno, in un appartamento privato, persiste un soffitto ligneo a cassettoni di fattura seicentesca.
Di questo palazzo permangono i contrafforti d’angolo che delimitavano la struttura, probabilmente ad isolato, e nella sua facciata sono visibili particolari architettonici appartenenti al passato, quali conci lapidei di portali e due tratti di cornici di particolare interesse. Sicuramente non coeve con l’edificio ma molto più antichi. Esse rappresentano una decorazione in acanto spinoso tipico dello stile bizantino. L’accesso principale del palazzo era su Corso Matteotti (numero civico 62). Entrando nell’androne, accediamo ad un ampio cortile. Sulla volta dell’androne era affrescata l’arma dei marchesi de Pizzis, inquartata con quelle dei duchi Celaja di Canosa e dei marchesi Alfieri di Poggio Picenze, fatta dipingere dai de Pizzis all’inizio del Settecento dal pittore ferrarese Giuseppe Lamberti. Oggi l’arma è quasi interamente ricoperta di vernice.
I marchesi de Pizzis di S. Martino ospitarono sovrani e principesse aragonesi, tra cui Alfonso (1448-1495) Duca di Calabria e futuro re di Napoli, e nel 1471 sua sorella Eleonora (1450-1493) che andava sposa ad Ercole I d’Este duca di Ferrara. Nel 1751 il marchese Giacomo de Pizzis abitava in questo edificio, una “casa Palazziata, con cortile e cisterna d’acqua, sita nella Strada grande di Terravecchia contigua alla Chiesa Catredale di S. Tomaso Ap.lo”.
Il palazzo è stato completamente ristrutturato e innalzato di un piano nel primo ventennio del secolo scorso, venendo a perdere così vari elementi della struttura originaria. L’edificio, alla fine del XVIII secolo passò ai marchesi Benedetti di Scoppito, patrizi aquilani, ai duchi di Costanzo di Paganica, agli Onofrj e, infine, a vari proprietari.
Palazzo Rosica
La costruzione, attualmente individuata dai numeri civici 12 e 14, anche se nel corso dei secoli ha subito notevoli modifiche, si evidenzia nella sua struttura originaria risalente al XVI-XVII secolo.
Nella metà del Seicento era di proprietà di Annibale de Sanctis che abitava in “casa Palazziata con cortile, e cisterna da acqua, sita nel Piano di S. Tomaso Ap.lo, confinante davanti il detto Piano da dietro le strade pubbliche e dall’altro lato il Mag.co D. Nicola de Letto”. Successivamente il palazzo passò ai Serafini i quali, nella seconda metà dell’Ottocento provvidero ad eseguire consistenti lavori di restauro. Infine la proprietà passò alla famiglia Rosica. Sino agli ultimi eventi bellici, proprio attaccato al citato palazzo, sorgeva la “casa palazziata, con cortile e cisterna da acqua” di proprietà della famiglia de Letto.
Di particolare rilievo è il portale con arco a tutto sesto circondato, sia sulle pile che sull’archivolto, da bugnato lapideo. Questo è composto da blocchi che riportano bugne sia a punta di diamante che a cuscino liscio; una cornice interna collega le parti. Sei conci a base rettangolare intercalati da una doppia bugna a punta di diamante formano il piedritto, questo poggia su un plinto e termina con una cornice modanata, qui imposta l’arco costituito da dieci conci trapezoidali sempre alternati da una doppia punta di diamante. Interessante la soluzione costruttiva della chiave di volta a forma di mensola ornamentale elaboratamente modanata, con stemma gentilizio sul fronte e decorazione floreale sulla faccia inferiore; questa è allungata ed è racchiusa tra due conci a cuscino formando un tutt’uno e conferendo l’impressione visiva che stia fermamente serrando l’intera struttura. Un portale moderatamente marcato che spicca con la muratura piana dell’edificio.
Palazzo Mancini
L’edificio, contrassegnato dai numeri civici 16-18 di Piazza S. Tommaso e 45-47 di Corso Matteotti, fu realizzato agli inizi del Cinquecento, probabilmente ristrutturando il palazzo appartenuto ai Riccardi. Alla residenza di questa famiglia è attribuibile il primo piano che insiste su Corso Matteotti, contigua alla Torre, e l’elaborato portale con sovrastante balcone. I primi proprietari dell’attuale edificio furono i de Thinis e i Bonfiglio che poi lo cedettero alla famiglia de Sanctis. Infatti, in casa di messer Camillo de Sanctis fu ripetutamente ospitata alla fine del Cinquecento Margarita d’Austria e in essa la duchessa morì il 18 gennaio 1586. Nel 1605, nel cortile del palazzo, i fratelli Paolucci di Chieti fusero il cosiddetto “campanone”, tuttora esistente sul campanile della cattedrale. Nel 1631 nell’edificio fu ospitata l’Infanta Maria Anna d’Asburgo (1606-1646), figlia di Filippo III re di Spagna, che andava sposa a suo cugino Ferdinando III d’Asburgo re d’Ungheria e futuro Imperatore del Sacro Romano Impero. Il palazzo viene menzionato nel Catasto della città del 1751 dove viene specificato che Giuseppe de Sanctis “ Abita in casa propria Palazziata sita nel Piano di S. Tomaso Ap.lo, giusta davanti il detto piano e le strade publiche … in commune e proindiviso co’ suoi fratelli D. Silvestro, D. Pietro, D. Gaetano e D. Nicola de Sanctis nella quale di presente abitano detti fratelli, e la lor madre, e sorella”.
Anche se l’edificio è stato danneggiato dagli ultimi eventi bellici, di notevole presenta ancora il bugnato angolare e il portale in pietra su Corso Matteotti. L’altro portale, su Piazza S. Tommaso, dal quale si accede all’ampio atrio, è stato interamente rifatto nel dopoguerra con impostazione simile a quello originale, andato distrutto. Sul timpano del balcone sovrastante il portale è ancora posto, perfettamente conservato, lo stemma gentilizio in pietra dei de Sanctis diviso con quello dei baroni Mantica. Le due casate si fusero con il matrimonio tra Giulio de Sanctis e Virginia Mantica celebrato il 10 giugno 1620. Nel dopoguerra l’edificio fu privato di una parte dell’ala a sinistra del suo ingresso per permettere l’allargamento di Via Girata al Piano che collega Piazza S. Tommaso (il Piano) con Via Morosini.
Il palazzo nella seconda metà del secolo XVIII passò ai Mancini, attuali proprietari.
Il fabbricato elevato per tre piani è stato ricostruito, a seguito dei gravi danni subiti dagli eventi bellici, negli anni Cinquanta del secolo scorso. Dei caratteri originari sono rimasti il cantonale bugnato ed il bellissimo portale lapideo, con sovrastante balcone, che affaccia su Corso Matteotti. Un portale lapideo con sovrastante balcone. Il portale con arco a tutto sesto è costituito da bugne a cuscino rusticate alternate da conci tronco piramidali con decorazione apicale di tipo floreale; i piedritti poggiano su un plinto modanato e portano un capitello di tipo ionico su cui imposta l’arco; la chiave di volta non è stata considerata nella composizione dando cosi una continuità all’elemento architettonico; due lesene scanalate e rudentate con capitello corinzio sostengono una trabeazione costituita da sei modiglioni con interposte metope a decorazione floreale, confinate da due protome umane, contornano il portale e sorreggono un balcone che lo definisce in un tutt’uno dando slancio e imponenza nonché fasto all’edificio.
Sull’architrave di una finestra del primo piano è incisa la scritta latina: “SOLI DEO HONOR ET GLORIA”.
Lungo Corso Matteotti, a fianco del Palazzo Mancini, si erge la struttura in laterizio della Torre Riccardi, di forma quadrangolare; probabilmente all’inizio la torre era isolata da palazzi contigui, e ciò si nota dal contrafforte ancora identificabile nella parte di muratura che la lega al Palazzo Mancini. Edificata tra il XIV e il XV secolo, è in pratica l’ultima parte rimasta del palazzo appartenuto alla famiglia Riccardi, esiliata da Ortona agli inizi del Cinquecento perché filo-francese. All’inizio del XVI secolo la torre, dai Riccardi passò ai de Thinis e ai Bonfiglio e, successivamente ai de Sanctis che la utilizzarono come magazzino e rifugio.
Tra i personaggi di spicco della famiglia Riccardi ricordiamo: Francesco, potente feudatario, fu Siniscalco e Ciambellano di Ladislao di Durazzo re di Napoli, e venne da questo destinato a Perugia come Viceré e Governatore dal 1408 al 1414. Fu, inoltre, Capitano regio ad Aquila, Amalfi, Napoli e Pescara e ricevette incarichi diplomatici dalla regina Giovanna II per la quale fu ambasciatore a Venezia, Firenze e Milano. Si spense nel 1424. Morello, vissuto prevalentemente in esilio, fu in gioventù uomo d’armi dei Montefeltro duchi di Urbino. Divenne agli inizi del XVI secolo gentiluomo di corte a Mantova, dai Gonzaga, e perduta ogni speranza di rientrare ad Ortona, fu di nuovo ad Urbino, dove conobbe Pietro Bembo. Fu immortalato da Baldassarre Castiglione nel “Cortegiano” e nel “Tirsi”.
Palazzo de Sanctis
E’ la più antica abitazione della famiglia de Sanctis. Sul portale in pietra del XV secolo (numero civico 60) è ancora visibile una iscrizione latina in cui si legge che l’edificio fu restaurato da Andrea Matteo de Sanctis (sec. XVI). Venne poi inglobato nel palazzo dei marchesi de Pizzis e, con questo, in gran parte rimaneggiato. Sulla facciata restano diversi elementi architettonici, apparsi durante lavori di restauro, che testimoniano i veri caratteri architettonici originari dell’edificio, risalenti al XIV secolo.
Poco oltre, sempre sulla destra, troviamo una lapide che ricorda la casa dove nel 1892 nacque Michele Cascella. Il padre Basilio, pittore e ceramista è stato il capostipite di una famiglia di artisti oggi arrivata alla quinta generazione.
Subito dopo si notano i resti di un antico palazzo signorile appartenuto nel Seicento ai de Federicis, una famiglia di notai originari di Pianella, giunta in Ortona sul finire del XVI secolo. Successivamente il palazzo divenne di proprietà della famiglia dei baroni de Benedictis.
I ruderi del palazzo si trovano sopra i fondaci medievali di Piazza Plebiscito, già descritti.
Di questo antico palazzo resta un particolare architettonico molto interessate, forse parte di una finestra. Sono ancora visibili due colonnine affiancate, complete di capitello a blocco, che supportano due parti di archi, uno esterno a sesto acuto ed uno interno polilobato contornato da un elemento scultoreo a forma di fune attorcigliata o rudente; il pilastrino esterno con sovrastante arco ogivale è in mattoni, quello interno con arco polilobato e cornice è in pietra; entrambi i pilastri sono completi di basi che poggiano su una cornice modanata con cavetto e sono completi di capitello decorato con motivi vegetali, tutti in materiale lapideo.
In un atto notarile del 1649 questo edificio viene così descritto: “… una casa consistente in più membri cioè in una sola ed unica camera, sopracamera, cellaro sotto a detta sala, al quale si cala per la scala di pietra a ciamaglica con due fosse da conservarsi grano dentro l’istesso cellaro, con due camere contigue a detta sala à piede piano, con uno cellaro sotto a dette due camere dove si cala per una cateratta …”.
Il visitatore, salendo una gradinata sulla sinistra che costeggiava il Palazzo de Apruzzo raso al suolo dagli eventi bellici, si ritrova a Piazza Risorgimento. Sulla sinistra, dopo l’incrocio con Via Morosini, c’è il Palazzo Quatrari.
Palazzo Quatrari
Appartenne nei secoli scorsi alla omonima famiglia, originaria di Sulmona, stabilitasi in Ortona verso la metà del Quattrocento ed estintasi nei primi decenni del XVII secolo.
Di tutto il fabbricato ci è pervenuto, di notevole, solamente il portale, un manufatto lapideo interessante particolarmente per la sua decorazione. Non è un bugnato, ma una composizione di lastre a forte spessore sagomate e scolpite con una successione di riquadri nastrati da listello e nei pannelli riportano un bassorilievo; il piedritto, che poggia su un plinto, contiene una decorazione costituita da quattro riquadri: il primo e l’ultimo incisi con un motivo a spirale, o un sole, il secondo con una rosa a cinque petali ed il terzo diviso in due rettangoli pieni posti verticalmente; una piccola lastra rettangolare con un rombo a rilievo lo delimita e serve da imposta per l’archivolto; questo è costituito da tre lastre sagomate per formare un arco a tutto sesto e la decorazione è costituita dagli stessi soggetti già detti, ma con una sequenza diversa: il primo in basso, sia a destra che a sinistra, con una spirale e gli altri sei con la rosa a cinque petali; il riquadro centrale al posto della chiave non ha decorazione, forse portava lo stemma gentilizio. Una modanatura percorre il bordo esterno e lo definisce rispetto al paramento murario. Il sole, la rosa, il rettangolo ed il rombo sono figure carichi si significati allegorici.
Sul lato destro della piazza insiste l’antico campanile della chiesa di S. Francesco che, fino al 1943, era legata all’antica struttura conventuale anch’essa ormai quasi completamente distrutta.
La torre campanaria si presenta integra soltanto nella sua parte superiore che si può ancora ammirare nella sua semplicità. La sua costruzione risale alla metà del XIII secolo. Difatti nella “Vita di S. Francesco d’Assisi” scritta da Tommaso da Celano nel 1253, si narra che alcuni marinai di Barletta, rischiando un naufragio, invocarono l’aiuto del Santo promettendo di elargire, nel caso si fossero salvati, “un’oncia d’oro alla sua chiesa che di fresco si sta costruendo in Ortona”.
Dal portone situato sotto il caratteristico portichetto a lato del campanile si accede a Palazzo de Benedictis dove nel 1839 ebbe i natali Luisa de Benedictis, madre di Gabriele d’Annunzio. La famiglia de Benedictis, imborghesitasi nell’Ottocento, era giunta da Penne agli inizi del Settecento. Del palazzo, l’antico convento dei francescani conventuali, rimane, purtroppo, solo l’ala che costeggia la strada intitolata alla madre del poeta. All’interno del cortile, l’antico chiostro, è possibile ancora ammirare la vera lapidea della cisterna dell’acqua.
Così Gabriele d’Annunzio nel “Libro segreto” ricorda la casa dei suoi avi materni: “Vastissima era la casa d’Ortona, di architettura massiccia, tra il monastero e il fortilizio, tutta atrii, anditi, vestiboli, cortili adornati di logge, giardinetti murati, corridoi lunghi a spartitura di stanze quasi celle. … di mattonelle invetriate erano fatti i pavimenti, dove rimanevo ore ed ore sotto specie quadrupede a cercar fiori e animali come in una prateria variopinta”.
Proseguendo lungo via Luisa d’Annunzio, nello spigolo terminale dello stesso isolato, a circa tre metri di altezza è inserito lo stemma lapideo di mons. Giovan Domenico Rebiba, vescovo di Ortona dal 1570 al 1595. Questo particolare attesta che la proprietà di quell’edificio era, nel 1592, della Mensa Vescovile che la conservò almeno fino alla metà del Settecento. Difatti nell’Onciario del 1751 risulta che la Mensa Vescovile di Ortona possedeva, fra l’altro, “… la Casa e bottega sita nella pubblica Piazza, confinante davanti e da un lato la strada, da un lato li beni del mag.co Gaetano Sabelli di Pollutri, e dall’altro il medesimo”.
Risalendo verso Piazza Risorgimento costeggiamo, sulla destra, Palazzo Farnese, un imponente edificio di bella ed elegante architettura.
Fu fatto edificare dalla duchessa Margarita d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V e moglie di Ottavio Farnese quando, dopo l’acquisto della città per 54.000 ducati (21 febbraio 1582), decise di fissare la sua residenza nella cittadina adriatica. Il luogo scelto per la costruzione del palazzo, il largo del Carbonaro, era il luogo più suggestivo della città, con una splendida vista sul mare e sul porto. Il progetto del palazzo fu affidato all’architetto Jacopo della Porta, uno dei più stimati architetti di Roma dove, fra l’altro, aveva già progettato la chiesa di S. Filippo dei Francesi; inoltre aveva portato a termine la facciata della chiesa del Gesù iniziata dal Vignola, e la cupola della Basilica di S. Pietro dopo la morte di Michelangelo. La posa della prima pietra del Palazzo Farnese di Ortona fu effettuata il 12 marzo 1584. Ogni lato della fabbrica misurava m. 49,70 e aveva undici finestre alte m. 4 e larghe m. 2,20.
Attualmente dell’imponente palazzo resta circa un terzo in quanto tutta l’ala orientale è crollata a causa della frana del 1782 e l’ala verso il Castello fu abbattuta per far posto a un edificio moderno. Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso la parte rimasta del palazzo è stata acquistata dal Comune. Successivamente l’edificio è stato restaurato dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici dell’Abruzzo; i lavori sono stati portati a termine nel 1977.
La facciata del palazzo presenta parecchi punti di distacco da quelle del primo Rinascimento. Il piano terreno non è più a bugnato, ma ad intonaco come il resto della facciata, gli spigoli sono sempre ornati da bugne. Data l’altezza dell’edificio, le trabeazioni che dividono i piani corrono al piano del pavimento e lo spazio fra il davanzale ed il pavimento è occupato da pannelli. La facciata con cantonali in pietra si articola su quattro piani e le finestre di ciascun piano presentano differenti decorazioni; al primo piano sono del tipo tabernacolare, contornate da una membratura con angoli di spalla tutta modanata e sormontata da una cornice sporgente, il davanzale è sostenuto da mensole a pannelli al cui centro si apre una luce per il piano sottostante; al piano secondo sono sempre contornate da una membratura simile a quella del piano inferiore, ma senza mensole e con i pannelli ciechi; al posto della cornice sono coronate da frontoni sia triangolari che segmentali di uguale altezza in sequenza binata; al terzo piano l’ornamentazione si riduce ad una semplice fascia con frontoni staccati dello stesso tipo del piano inferiore. Nella facciata si avverte la mancanza di un cornicione di delimitazione e finitura. All’interno si può ammirare un ampio vano scala di bellezza raffinata tipico dell’architettura del XVI secolo.
La struttura originaria comprende soltanto il piano terra e il primo piano, mentre i due piani sovrastanti sono stati edificati alla fine del Settecento quando l’edificio fu acquistato dalla famiglia Berardi.
Ritornati a Piazza Risorgimento imbocchiamo Via Morosini che costeggia, inizialmente, il Palazzo Quatrari.
Percorrendo questa antica strada, incrociamo sulla destra le stradine medievali Via dell’Aurora e Vico dell’Alba, e sulla sinistra Via dei Naviganti con tre contrafforti posti a diversa altezza. Subito dopo si può ammirare un interessante portale in pietra con uno stemma nobiliare sulla chiave di volta non identificabile in quanto irrimediabilmente rovinato, e con la data di costruzione ben visibile: 1600. Questo edificio potrebbe essere identificato con la “casa Palazziata sita nel Rione di Terra vecchia, in contr. di S. Angiolo”, abitata nel 1751 dalla vedova Girolama Vesij-Castiglione. Con l’estinzione, alla fine del Settecento, dei Vesij-Castiglione, il palazzo divenne di proprietà dei marchesi Castiglioni di Poggio Umbricchio, nobili di Penne.
Il palazzo conserva anche un cortiletto parzialmente modificato dove è possibile vedere, anche se in parte inglobato nella muratura della scalinata di più recente costruzione, l’anello ottagonale della cisterna sistemata al centro del cortile originario.
Quasi di fronte, il Vico della Rosa dove ci appare un suggestivo susseguirsi di sei contrafforti.
A testimonianza dell’antichità del rione ricordiamo che qualche anno fa in un saggio di circa due metri di profondità condotto dalla Soprintendenza alle Antichità, sono emerse presenze di strutture murarie alto medievali.
L’attuale Via Morosini, con le strette viuzze laterali e contrafforti, evidenzia una integra rete viaria medievale, pervenutaci integralmente, ad esclusione del lato mare di Via della Fortuna. In questa struttura viaria esistevano, e ci sono ancora, abitazioni usufruite da quanti erano legati all’attività del mare. Proprio su Via della Fortuna, comunque, sono visibili segni che testimoniano l’antichità di alcuni edifici: un architrave lapideo con stemma finora non attribuibile a famiglie ortonesi e un portale in pietra, malamente conservato con stemma sulla chiave di volta molto eroso.
Riprendendo il cammino lungo Via Morosini, sulla destra ci imbattiamo in un austero palazzo della borghesia imprenditoriale la cui facciata è costruita con i caratteristici materiali locali: l’arenaria e il laterizio. Alcuni stipiti ed architravi in pietra arenaria ci fanno capire che l’edificio, forse del XVI secolo, è stato realizzato su strutture medievali preesistenti. Il palazzo fu abitato fino alla seconda metà del Settecento dai già citati Mignotti originari di Alessandria.
Nella parte finale di Via Morosini, a circa quattro metri di altezza, tra due balconi, è visibile uno stemma in pietra raffigurante a rilievo un Cristo in croce con la scritta “Santo Honofrio Anno Domini 1656”, segno evidente che quell’edificio, all’epoca, era di proprietà dell’omonima confraternita.
Giungiamo, quindi, alla Piazzetta di S. Michele sulla cui area sino agli anni venti del secolo scorso sorgeva l’omonima chiesa, anticamente chiamata chiesa di S. Angelo che dava il nome all’attuale via Morosini, allora Strada dell’Angelo. Di questa chiesetta resta la piccola sagrestia su Via della Fortuna dove è possibile ammirare anche un contrafforte. Da questo luogo è possibile affacciarsi sulla Passeggiata Orientale aperta sulla Ripa Grande nel 1882 da Camillo de Ritis, sindaco di Ortona, e allungata e ampliata durante il secolo scorso.
Prendendo Via dell’Allegria, arriviamo alla Piazzetta dei Pescatori dove, di fronte, è possibile ammirare la parte posteriore di Palazzo Mignotti di Corso Matteotti, recentemente restaurata. Sul lato opposto della piazzetta è presente la struttura, ormai quasi completamente rimaneggiata, di Palazzo Vesij Castiglione (numero civico 27). A testimonianza dell’antichità dell’edificio restano il portale in pietra con bugnato e parte del cortile con al centro un antico pozzo con anello ottagonale in pietra.
Il palazzo appartenne anticamente alla famiglia Vesij-Castiglione. Questa casata si era formata con la fusione della famiglia Vesij, venuta dalla Puglia nella prima metà del Seicento, con i marchesi Castiglione di Poggio Umbricchio, nobili di Penne. Il palazzo passò ai de Sanctis quando Giacinta Vesij-Castiglione sposò Silvestro de Sanctis nella prima metà del Settecento. Successivamente, quando Caterina de Sanctis, figlia di Silvestro e Giacinta, trasse matrimonio con il barone Panfilo de Benedictis di Francavilla al Mare, passò ai de Benedictis che ne rimasero proprietari sino alla metà del secolo scorso. Questa famiglia baronale non deve confondersi con quella omonima che diede i natali alla madre di Gabriele d’Annunzio.
Quella tra Via Leone Acciaiuoli (Strada di S. Domenico) e Via Morosini (Strada dell’Angelo) è la parte medievale più recente del rione di Terravecchia, e la Piazzetta dei Pescatori ne rappresenta il cuore.
Questa caratteristica piazzetta, su cui sbocca la Salita dei Pescatori, divide in due Via Leone Acciaiuoli. Guardando verso Piazza S. Tommaso possiamo ammirare due contrafforti mentre procedendo a destra notiamo una massiccia struttura in laterizio con ampio portale (numero civico 63) che immette a un cortile scoperto. Attualmente l’edificio è conosciuto come “lo stallone” in quanto nel XVIII secolo gli ampi locali a piano terra furono adibiti come stalla per i cavalli degli squadroni di cavalleria di passaggio per Ortona.
Riusciamo ad identificare questo edificio attraverso un’antica e dettagliata descrizione. Nel 1726 il palazzo era di proprietà “… del messer Carlo Massari col cortile coperto e stalla, composta di cinque cammeroni e fenestrone che riguarda l’acqua del mare, ed il Palazzo del m: D. D. Corvo”, mentre nel 1751, il Regio Portolano Michele Salzano de Luna, “Abita in casa Palazziata, parte propria e parte dell’Ufficio della Regia Portolania, unita a detta casa propria, sita nel Rione di Terravecchia giusta da tre lati le strade publiche, e dall’altro lato le mura della Città, sotto della quale vi è un pezzo di territorio”. L’edificio appartenne, nel secolo scorso, alle famiglie D’Annibale e Pellegrini.
Subito dopo, sulla destra, fino all’inizio del Novecento, esisteva uno stretto budello con angiporto e contrafforti chiamato “Il cannone”. Questa antica stradina, che sbucava verso la Passeggiata Orientale, permetteva di vedere, come attraverso una canna di cannone, la struttura portuale. Poco prima dell’ultima guerra essa è stata privatizzata e attualmente funge da androne di una casa privata.
Proseguendo oltre giungiamo a Largo Riccardi. Sul sito dell’antica chiesa con convento di S. Domenico insiste una nuova edificazione realizzata negli anni Sessanta del secolo scorso, dove oggi è collocata la Biblioteca Diocesana.
Da Largo Riccardi, tramite una gradinata con pavimentazione in selciato, passiamo a Vico S. Domenico. Notiamo ad un’altezza di circa tre metri scolpita su pietra una testa di cavallo e, nell’edificio ad angolo con Corso Matteotti, una interessante ed antica miniscultura su pieta raffigurante un viso umano. Il visitatore giunge di nuovo al Castello aragonese concludendo la sua passeggiata.
A cura dell’Associazione “Storia Patria” – Ortona